domenica 20 maggio 2012

LA RAGIONEVOLEZZA DELLA FEDE IN DIO


La traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi. Tuttavia questa traccia ha la peculiarità di coincidere con il suo scopritore, e dunque di non esistere indipendentemente da lui. Quando noi, vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verità, e quando l’autocontradditorietà di questa affermazione non ci sgomenta, allora non possiamo attendere che qualcosa ci possa convincere dell’esistenza di Dio. Come ho già detto, infatti, questa traccia di Dio che siamo noi stessi non esiste senza che noi lo vogliamo, anche se – grazie a Dio – Dio esiste del tutto indipendentemente dal fatto che noi lo riconosciamo, che sappiamo di Lui o Lo ringraziamo. Ciò che possiamo cancellare è solo noi stessi.
Il concetto della somiglianza dell’uomo con Dio, spesso utilizzato solo come una metafora edificante, assume oggi un preciso e inatteso significato. Somiglianza con Dio significa capacità di verità. Laddove l’amore non è altro che la verità realizzata. L’amore si può definire come il divenire reale dell’altro per me. Nessun concetto per il messaggio neotestamentario ha un significato così centrale come il concetto di verità. “Per questo sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità”, risponde Cristo alla domanda di Pilato se Egli sia un re. Questa risposta sta fino ad oggi accanto alla domanda di Pilato: “Che cos’è la verità?”
La personalità dell’uomo sta e coincide con la sua capacità di verità. Questo viene oggi posto in questione da biologi, teorici dell’evoluzione e delle neuroscienze. Non posso entrare nella discussione che si è sviluppata al riguardo. Vorrei soltanto dire che ogni visione puramente spiritualistica dell’uomo viene oggi inglobata dal naturalismo. Per il naturalismo tuttavia la conoscenza non è ciò che essa stessa considera di essere. La conoscenza non ci illumina su ciò che è, ma consiste in adattamenti all’ambiente finalizzati alla sopravvivenza. Tuttavia come possiamo sapere questo, se non possiamo sapere nulla? Il fatto che l’uomo sia completamente natura, un essere naturale uscito fuori dalla vita subumana, può non essere letale per l’autocomprensione dell’uomo solo a condizione che la natura, per parte sua, sia stata creata da Dio e la creazione dell’uomo corrisponda ad una intenzione divina. Per questo non è necessario che il processo evolutivo, che io con Darwin preferisco definire come processo di discendenza, venga inteso comeprocesso teleologico, vale a dire che in esso il generatore del nuovo non sia il caso. Ciò che è il caso visto dal punto di vista della scienza naturale, può essere intenzione divina tanto quanto ciò che è riconoscibile per noi come processo orientato verso un fine. Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali. Se i biologi parlano di “folgorazione” e di “emergenza” per esorcizzare con le parole l’inesplicabile, credere in Dio significa allora avere un nome per questa irruzione del nuovo, un nome che, in fondo, non riduca il nuovo soltanto all’antico, il nome “creazione”. La capacità di verità si può comprendere soltanto come creazione.
Vorrei chiarire ciò che penso, il fatto cioè che la verità presuppone Dio, con un ultimo esempio, una dimostrazione di Dio che sia, per così dire, Nietzsche-resistente, una dimostrazione di Dio a partire dalla grammatica, più esattamente dal cosiddetto Futurum exactum (il futuro anteriore). Il Futurum exactum, il secondo futuro è per noi necessariamente connesso al presente. Dire di qualcosa che è adesso, equivale a dire nel futuro che quella cosa è stata. In questo senso ogni verità è eterna. Il fatto che il 10 dicembre 2009 numerose persone siano riunite a Roma per una conferenza di Robert Spaemann su “Razionalità e fede in Dio” non è vero solo oggi, ma è vero per sempre. Se noi oggi siamo qui, noi domani saremo stati qui. Come passato, come essere stato del futuro presente, il presente rimane sempre reale, sempre passato reale. Tuttavia di che tipo è questa realtà? Si potrebbe dire: come visibilità nelle tracce che essa lascia con la sua azione causale. Tuttavia queste tracce si diradano sempre di più. E restano tracce fintantoché ciò che le ha lasciate, viene esso stesso ricordato.
Fintantochè il passato viene ricordato, non è difficile rispondere alla domanda sul genere del suo essere. Ha la sua realtà appunto nell’essere ricordato. Tuttavia il ricordo prima o poi svanisce. E prima o poi nessun uomo ci sarà più sulla terra. Alla fine perfino la terra scomparirà. Poiché al passato appartiene sempre un presente, del quale il passato è passato, dovremmo dunque dire che con il presente che ricordiamo scompare anche il passato, e il futuro anteriore perde il suo significato. Tuttavia è proprio questo che non possiamo pensare. La proposizione “nel futuro più lontano non sarà più vero che noi questa sera eravamo riuniti qui” è insensata. Non si lascia pensare. Se noi un giorno non saremo più stati, allora noi di fatto non siamo reali neanche adesso, così come il Buddismo afferma in modo consequenziale. Se la realtà presente un giorno non sarà più stata presente, allora essa non è affatto reale. Chi elimina il futuro anteriore elimina il presente.
Tuttavia, ancora una volta: di quale tipo è questa realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità? L’unica risposta suona così: siamo costretti a pensare una coscienza che custodisce tutto ciò che accade, una coscienza assoluta. Nessuna parola pronunciata un giorno sarà un giorno non pronunciata, nessun dolore non sofferto, nessuna gioia non vissuta. Il passato può diradare, ma non si può fare in modo che non sia stato. Se la realtà esiste, allora il futuro anteriore è inevitabile e con esso il postulato del Dio reale.
“Io temo”, così scrive Nietzsche, “che non ci libereremo di Dio finchè continuiamo a credere alla grammatica”. Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica. Anche Nietzsche ha potuto scrivere quello che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica ciò che ha voluto dire.

Estratto dalla relazione tenuta da Robert Spaemann all’Evento Internazionale “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, Roma, 10 dicembre 2009

(traduzione di Leonardo Allodi)

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