La
dignità umana non ha una «ragione» biologica, ma avere dignità è una
conseguenza dell’appartenenza biologica alla famiglia degli esseri
liberi: i rapporti familiari sono anche rapporti personali. Quello di
padre, madre, sorella, fratello, nonno e via dicendo è – in contrasto
con gli animali – un ruolo che dura tutta la vita.
È perciò irrilevante che un singolo membro della famiglia abbia avuto, abbia o avrà mai quelle proprietà che c’inducono a parlare di persone, quelle proprietà, cioè, in cui la dignità si manifesta come fenomeno. Il detto comune che la dignità umana vada rispettata si fonda su una peculiare ambivalenza nel pensiero di un soggetto libero. Un’ambivalenza della quale scaturiscono due percezioni diverse riguardanti ciò che costituisce una violazione di tale dignità, definita «inviolabile» (unantastbar) della Costituzione tedesca, nel cui commento standard è giustamente specificato che tale aggettivo va interpretato in senso normativo, non descrittivo. «Inviolabile», dopotutto, potrebbe significare che è impossibile violare una certa cosa, come pure che quella cosa non deve essere violata. Entrambi i significati affondano la loro comune radice nel fatto che gli esseri umani sono, da una parte, persone, soggetti liberi, e come tali non possono essere toccati e violati dall’esterno.
È perciò irrilevante che un singolo membro della famiglia abbia avuto, abbia o avrà mai quelle proprietà che c’inducono a parlare di persone, quelle proprietà, cioè, in cui la dignità si manifesta come fenomeno. Il detto comune che la dignità umana vada rispettata si fonda su una peculiare ambivalenza nel pensiero di un soggetto libero. Un’ambivalenza della quale scaturiscono due percezioni diverse riguardanti ciò che costituisce una violazione di tale dignità, definita «inviolabile» (unantastbar) della Costituzione tedesca, nel cui commento standard è giustamente specificato che tale aggettivo va interpretato in senso normativo, non descrittivo. «Inviolabile», dopotutto, potrebbe significare che è impossibile violare una certa cosa, come pure che quella cosa non deve essere violata. Entrambi i significati affondano la loro comune radice nel fatto che gli esseri umani sono, da una parte, persone, soggetti liberi, e come tali non possono essere toccati e violati dall’esterno.
La
tradizione cristiana ha come proprio simbolo centrale l’immagine di
qualcuno che in apparenza è totalmente privato della sua dignità,
denudato e crocifisso, ma al tempo stesso, proprio come tale è onorato
con la più profonda reverenza possibile. È secondo questa tradizione che
va interpretata la scena del re Lear di Shakespeare in cui il conte di
Kent offre i propri servigi al vecchio re, scacciato dalle figlie e in
pieno declino. Quando Lear obietta di non essere nessuno, Kent risponde:
«C’è nel vostro aspetto qualcosa che m’induce a chiamarvi padrone». Qui
la dignità regale non deriva dal potere regale. La dignità regale
corrobora la rivendicazione del potere, ma esiste a prescindere dal
fatto che tale rivendicazione del potere, ma esiste a prescindere dal
fatto che tale rivendicazione si realizzi.
Anche
l’estremità inferiore della scala sociale troviamo esemplificata la
qualità della dignità. Il servizio comporta una dignità speciale, una
dignità che impedisce a chi la possiede di essere un semplice esecutore
degli ordini.
È
questa, e non una generica «dignità umana», a dare al servitore il
senso particolare della propria importanza di fronte al suo padrone. Ci
sono condotte, azioni e situazioni che dimostrano quella qualità in modo
speciale. Ce ne sono altre in cui anche solo un accenno di dignità
evocherebbe immediatamente un senso di ridicola affettazione. Ce ne sono
poi altre ancora alle quali è associato il carattere dell’indegnità
come una qualità negativa che degrada l’agente. L’indegnità può
appartenere soltanto alle azioni e agli atteggiamenti delle persone,
vale a dire di essere liberi ai quali attribuiamo almeno un certo grado
di dignità (se non vogliamo sentirci in imbarazzo per loro). Il
risentimento, l’odio e il fanatismo sono atteggiamenti totalmente
opposti alla dignità. Umiliare deliberatamente chi è più debole è poco
dignitoso quanto battere in ritirata dinanzi ai più forti. La dignità
umana è così inviolabile che nessuno ce la può togliere. Soltanto noi
possiamo rinunciarvi.
Tutto
ciò che gli altri possono fare è offendere la nostra dignità non
rispettandola. Nel qual caso, però, non riescono a privarcene. Non sono
stati Massimiliano Kolbe e Kaplan Popieluszko a perdere la propria
dignità, bensì i loro assassini. Ciò che invece è possibile togliere a
un altro è l’opportunità di presentarsi dignitosamente. Se la legge
romana proibiva di crocefiggere i cittadini romani non era soltanto
perché la crocifissione era più dolorosa della decapitazione, ma
soprattutto perché esponeva la vittima allo sguardo di tutti, privandola
della possibilità di presentarsi. La vittima giustiziata stava di
fronte agli altri in un confronto che, dal suo punto di vista ,mancava
del carattere di «auto-rivelazione» essenziale per la comunicazione
personale.
Obiettivamente,
è una situazione priva di dignità. Lo stesso valeva per la gogna, che
sottoponeva il reo a una situazione di oggettiva indegnità. Così il
Crocifisso rimane esposto da secoli al nostro sguardo, ma come oggetto
di culto. La croce rappresenta il balzo gigantesco verso la radicale
interiorizzazione del concetto di dignità, verso la consapevolezza di
qualcosa, nel fenomeno della dignità, che è velato e svelato al tempo
stesso.
Pubblicato da Avvenire il 26/10/2011
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