Atti, 2, 42 ss "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Una domanda, forse ingenua, da un po’ di tempo mi
frulla in testa con insistenza: come mai nelle Facoltà teologiche e nei
nostri simposi cattolici di vario tipo ho visto trasparire uno zelo adamantino
nella condanna – peraltro condivisibile – dell’ateismo teorico identificato con
il materialismo marxista, mentre mi è parso che in confronto sia davvero
flebile il grido d’allarme doveroso nei confronti dell’ateismo pratico,
veicolato, a mio avviso in maniera assai più subdola, dall’attuale
capital-liberismo senza pudore? O almeno così generalmente è stato prima della
Sollicitudo rei socialis – sebbene la Mirari vos, in toni diversi modulati sui
tempi diversi, più d’un segnale lo avesse già lanciato, e non solo sul versante
economico. Eppure nella parola “comunismo” si intravede la distorsione
della parola comunione, la koinonia-agape dei cristiani, e nella parola
liberismo quella della parola “libertà” che Gesù in persona lega
indissolubilmente ad un’altra realtà-chiave, la verità, da fare prima ancora
che da dire. Forse per certi versi anche ai cattolici, ed in particolare a
quelli italiani, è toccato pagare lo scotto delle contrapposizioni ideologiche
di partito secondo cui se la sinistra fa un’affermazione, va di necessità che
la destra debba affermare il contrario per sentirsi a posto. Se il comunismo
ateo, dunque, per due secoli propugna l’equa distribuzione dei beni, alcuni
ambienti cattolici spesso si sentono in dovere di difendere la proprietà
privata non a feconda integrazione, ma in sistematica contrapposizione alla
suddetta istanza. Eppure gli Atti degli Apostoli parlano chiaro: “chi aveva
proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno
di ciascuno”. Anche a questo proposito forse ha fatto velo
l’artificiale contrapposizione manualistica tra “chiesa primitiva” e “chiesa
costantiniana”, ripresa anche dal priore di Bose per denunciare sacche di
opulenza ecclesiale, che però ha finito per suscitare diffidenza verso tutti
quelli che in nome di una maggiore uguaglianza sociale si appellano allo stile
vita delle prime comunità cristiane, portando talvolta a buttare, anche in
questo caso, il bambino e l’acqua sporca. Del resto ad un acuto studioso di
letteratura cristiana antica come il Dal Covolo, abituato ad analizzare gli
eventi nel loro contesto, questa enfatica contrapposizione retroattiva avrebbe
poco da dire. http://www.zenit.org/article-30311?l=italian,
come pure l’applicazione arbitraria di categorie recenti al passato, buona solo
per le risse teologiche su FB: quanto è antipatica la gioiosa voluttà di taluni
cattolici nel cercare continuamente di cogliere fumi di eresia nel pensiero dei
fratelli di fede e provare ad ingabbiarli in categorie di massima. Riuscirebbero
a far passare san Francesco per marxista e san Tommaso per fascista, se solo la
storia lo permettesse. Quel che mi stupisce è che questa furia inquisitoria è
più laicale che clericale, ma non mi pare affatto frutto di preghiera.
Allo sprovveduto studente di primo
pelo in ambiente accademico cattolico può anche capitare di trovarsi bloccato
in un reticolato inibente di sensi vietati: magari all’esimio professore di
antropologia filosofica proprio non aggrada il tomismo, specie degli epigoni,
visto come sbocco inevitabile di guerra, mentre l’arcigno docente di filosofia
della conoscenza vede in Rahner, Kasper – per non parlare di Teilhard de
Chardin e Panikkar – l’origine di tutti i mali; potrà capitargli persino di
sentir parlare di Giovanni XXIII e di Paolo VI come se fossero degli antipapi e
di vedere contestata l’ortodossia dell’inossidabile Von Balthasar; forse non
sarà risparmiato neanche dalla netta contrapposizione tra morale e fede
disegnata da qualcuno che in tarda età o dopo una giovinezza travagliata abbia
scoperto che il cristianesimo “è un evento e non una regola morale” e che con
tale scoperta dell’acqua calda intenda annullare un senso d’inferiorità tutto
soggettivo, magari buttando fango su quelli che, per grazia, lo avessero
scoperto già da prima e avessero cercato di adeguarvi i propri comportamenti.
Una strategia tutta “politica”, ancor prima che teologica e teologale. Per i
cultori dell’ortodossia tout-court prima o poi anche il professor Ratzinger
potrebbe scoprire il suo lato debole, tanto più che il suo calice del brindisi
alla coscienza, elevato con il card. Newman, non contiene bevanda gradita a
tutti. Il peggio però accade quando le contrapposizioni teoriche fra
menti eccelse, per lo più maschili, abituate a duellare in punta di fioretto,
fuoriescono dalle sacre aule per divenire fomento di lotta feroce tra fazioni
tanto assetate di ortodossia da brandirla minacciosamente contro i propri
simili, anziché offrirla loro come nutrimento dello spirito. Forse anche
perché sono donna, casalinga di condizione, non provo particolari
frustrazioni ad accettare che nella mia vita abbia avuto un ruolo fondamentale
un anziano confessore salesiano, tomista d’hoc, una delle poche persone che
abbia capito e rispettato le trame profonde della mia esistenza, esponendosi in
prima persona per evitarmi una dolorosissima ingiustizia che poi è giunta, del
quale custodisco con immenso affetto un prezioso opuscolo, “Come si fa
filosofia. A cent’anni dall’Aeterni Patris”, e nel contempo a dover ammettere
che Rahner, nell’adolescenza, mi ha dato una forte mano ad approfondire la
devozione mariana e a maturare un approccio più cosciente ai sacramenti. Sono
arrivata a concludere che il vero antidoto al relativismo sia proprio la
categoria di relazione, come lo sono la comunione e la libertà al comunismo e
al liberismo, la giustizia alla vendetta. A costo di sembrare qualunquista mi
piace richiamare in questo contesto il famoso discorso alla luna: “Continuiamo
dunque a volerci bene, a volerci bene così; guardandoci così nell'incontro:
cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c'è, qualche cosa che ci
può tenere un po' in difficoltà...” e l’affermazione di san Tommaso
d’Aquino secondo cui «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est»
(«Ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo»).
Ma torniamo al
punto da cui siamo partiti:“chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne
faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Nelle nostre
chiese si possono continuare a raccogliere le offerte per l’Università
cattolica presso un popolo che, oggi più che mai, non può permettersi di
accedere ad un’istruzione di qualità, pur desiderandolo. Si può continuare a
chiedere alla gente delle parrocchie di dare il proprio contributo per il
seminario cercando di giustificare razionalmente il fatto che molti presbiteri
non credono di dover mai dare conto del loro operato al popolo di Dio e che
anzi qualcuno di essi arriva disinvoltamente ad affermare dal pulpito che
è prete solo quando celebra la messa e poi è un uomo come gli altri. Si tratta
di un cliché che fa tendenza ed è apprezzato specie da quelli che in chiesa non
ci vanno e solitamente creano meno problemi perché “si fanno i fatti loro”. Da
laici cristiani si può tranquillamente continuare a percorrere la via
dell’individualismo comunitario pagando la tassa del dovere domenicale che fa
da timbro allo status di buona famiglia. Si sappia però che appiattirsi a
simile andazzo appare più legato a quelle ideologie di casta e di
classe in nome delle quali si è combattuto il marxismo, con cui è caduta in
sospetto anche ogni forma di condivisione di beni, che al Vangelo. Anche le
comunità religiose, connotate dalla condivisione di vita e di fede come
testimonianza dei beni eterni, hanno spesso rischiato di trasformarsi in
efficienti organizzazioni aziendali e persino di selezionare in tal senso i
propri membri.
Rimane però ad
incalzare la lapidaria affermazione degli Atti che difficilmente si presta ad
essere addomesticata: “chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva
parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Salta subito all’occhio che
in questa semplice constatazione non viene negata né la proprietà privata
(“chi aveva proprietà”), né la libertà personale (“le vendeva” e non “era
costretto a venderle”), né la condivisione di beni (“ne faceva parte a tutti”,
non in maniera indistinta, in nome di un’uguaglianza formale, ma “secondo
il bisogno di ciascuno”, cioè secondo un’uguaglianza sostanziale); non solo non
viene negata la libertà personale, ma viene sottolineato il valore della
coscienza: non di una coscienza soggettiva, ma di una coscienza retta,
innanzitutto dall’oggettiva testimonianza degli apostoli ai quali la
condivisione di vita con Gesù aveva restituito la piena consapevolezza della
propria dignità di figli di Dio. Si tratta di una fondazione della comunione
–agape che poggia, dunque, non su artificiali contrapposizioni di classe, ma sulla
coscienza dell’uguale dignità degli uomini affermata fin dagli albori
della creazione: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò,
maschio e femmina li creò. (…) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era
cosa molto buona”.
Gigliola
Gigliola
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