venerdì 18 maggio 2012

Condivisione dei beni, materiali e non solo: riappropriamocene.




Atti, 2, 42 ss "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. 43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. 44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; 45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Una domanda, forse ingenua, da un po’ di tempo mi frulla in testa con insistenza: come mai nelle Facoltà teologiche e nei nostri simposi cattolici di vario tipo ho visto trasparire uno zelo adamantino nella condanna – peraltro condivisibile – dell’ateismo teorico identificato con il materialismo marxista, mentre mi è parso che in confronto sia davvero flebile il grido d’allarme doveroso nei confronti dell’ateismo pratico, veicolato, a mio avviso in maniera assai più subdola, dall’attuale capital-liberismo senza pudore? O almeno così generalmente è stato prima della Sollicitudo rei socialis – sebbene la Mirari vos, in toni diversi modulati sui tempi diversi, più d’un segnale lo avesse già lanciato, e non solo sul versante economico.  Eppure nella parola “comunismo” si intravede la distorsione della parola comunione, la koinonia-agape dei cristiani, e nella parola liberismo quella della parola “libertà” che Gesù in persona lega indissolubilmente ad un’altra realtà-chiave, la verità, da fare prima ancora che da dire. Forse per certi versi anche ai cattolici, ed in particolare a quelli italiani, è toccato pagare lo scotto delle contrapposizioni ideologiche di partito secondo cui se la sinistra fa un’affermazione, va di necessità che la destra debba affermare il contrario per sentirsi a posto. Se il comunismo ateo, dunque, per due secoli propugna l’equa distribuzione dei beni, alcuni ambienti cattolici spesso si sentono in dovere di difendere la proprietà privata non a feconda integrazione, ma in sistematica contrapposizione alla suddetta istanza. Eppure gli Atti degli Apostoli parlano chiaro: “chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Anche a questo proposito forse ha fatto  velo l’artificiale contrapposizione manualistica tra “chiesa primitiva” e “chiesa costantiniana”, ripresa anche dal priore di Bose per denunciare sacche di opulenza ecclesiale, che però ha finito per suscitare diffidenza verso tutti quelli che in nome di una maggiore uguaglianza sociale si appellano allo stile vita delle prime comunità cristiane, portando talvolta a buttare, anche in questo caso, il bambino e l’acqua sporca. Del resto ad un acuto studioso di letteratura cristiana antica come il Dal Covolo, abituato ad analizzare gli eventi nel loro contesto, questa enfatica contrapposizione retroattiva avrebbe poco da dire. http://www.zenit.org/article-30311?l=italian, come pure l’applicazione arbitraria di categorie recenti al passato, buona solo per le risse teologiche su FB: quanto è antipatica la gioiosa voluttà di taluni cattolici nel cercare continuamente di cogliere fumi di eresia nel pensiero dei fratelli di fede e provare ad ingabbiarli in categorie di massima. Riuscirebbero a far passare san Francesco per marxista e san Tommaso per fascista, se solo la storia lo permettesse. Quel che mi stupisce è che questa furia inquisitoria è più laicale che clericale, ma non mi pare affatto frutto di preghiera.
Allo sprovveduto studente di primo pelo in ambiente accademico cattolico può anche capitare di trovarsi bloccato in un reticolato inibente di sensi vietati: magari all’esimio professore di antropologia filosofica proprio non aggrada il tomismo, specie degli epigoni, visto come sbocco inevitabile di guerra, mentre l’arcigno docente di filosofia della conoscenza vede in Rahner, Kasper – per non parlare di Teilhard de Chardin e Panikkar – l’origine di tutti i mali; potrà capitargli persino di sentir parlare di Giovanni XXIII e di Paolo VI come se fossero degli antipapi e di vedere contestata l’ortodossia dell’inossidabile Von Balthasar; forse non sarà risparmiato neanche dalla netta contrapposizione tra morale e fede disegnata da qualcuno che in tarda età o dopo una giovinezza travagliata abbia scoperto che il cristianesimo “è un evento e non una regola morale” e che con tale scoperta dell’acqua calda intenda annullare un senso d’inferiorità tutto soggettivo, magari buttando fango su quelli che, per grazia, lo avessero scoperto già da prima e avessero cercato di adeguarvi i propri comportamenti. Una strategia tutta “politica”, ancor prima che teologica e teologale. Per i cultori dell’ortodossia tout-court prima o poi anche il professor Ratzinger potrebbe scoprire il suo lato debole, tanto più che il suo calice del brindisi alla coscienza, elevato con il card. Newman, non contiene bevanda gradita a tutti.  Il peggio però accade quando le contrapposizioni teoriche fra menti eccelse, per lo più maschili, abituate a duellare in punta di fioretto, fuoriescono dalle sacre aule per divenire fomento di lotta feroce tra fazioni tanto assetate di ortodossia da brandirla minacciosamente contro i propri simili, anziché offrirla loro come nutrimento dello spirito.  Forse anche perché sono donna, casalinga di condizione,  non provo particolari frustrazioni ad accettare che nella mia vita abbia avuto un ruolo fondamentale un anziano confessore salesiano, tomista d’hoc, una delle poche persone che abbia capito e rispettato le trame profonde della mia esistenza, esponendosi in prima persona per evitarmi una dolorosissima ingiustizia che poi è giunta, del quale custodisco con immenso affetto un prezioso opuscolo, “Come si fa filosofia. A cent’anni dall’Aeterni Patris”, e nel contempo a dover ammettere che Rahner, nell’adolescenza, mi ha dato una forte mano ad approfondire la devozione mariana e a maturare un approccio più cosciente ai sacramenti. Sono arrivata a concludere che il vero antidoto al relativismo sia proprio la categoria di relazione, come lo sono la comunione e la libertà al comunismo e al liberismo, la giustizia alla vendetta. A costo di sembrare qualunquista mi piace richiamare in questo contesto il famoso discorso alla luna: “Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così; guardandoci così nell'incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c'è, qualche cosa che ci può tenere un po' in difficoltà...” e l’affermazione di san Tommaso d’Aquino secondo cui «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est» («Ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo»).
Ma torniamo al punto da cui siamo partiti:“chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Nelle nostre chiese si possono continuare a raccogliere le offerte per l’Università cattolica presso un popolo che, oggi più che mai, non può permettersi di accedere ad un’istruzione di qualità, pur desiderandolo. Si può continuare a chiedere alla gente delle parrocchie di dare il proprio contributo  per il seminario cercando di giustificare razionalmente il fatto che molti presbiteri non credono di dover mai dare conto del loro operato al popolo di Dio e che anzi  qualcuno di essi arriva disinvoltamente ad affermare dal pulpito che è prete solo quando celebra la messa e poi è un uomo come gli altri. Si tratta di un cliché che fa tendenza ed è apprezzato specie da quelli che in chiesa non ci vanno e solitamente creano meno problemi perché “si fanno i fatti loro”. Da laici cristiani si può tranquillamente continuare a percorrere la via dell’individualismo comunitario pagando la tassa del dovere domenicale che fa da timbro allo status di buona famiglia. Si sappia però che appiattirsi a simile  andazzo appare più legato a quelle  ideologie di casta e di classe in nome delle quali si è combattuto il marxismo, con cui è caduta in sospetto anche ogni forma di condivisione di beni, che al Vangelo. Anche le comunità religiose, connotate dalla condivisione di vita e di fede come testimonianza dei beni eterni, hanno spesso rischiato di trasformarsi in efficienti organizzazioni aziendali e persino di selezionare in tal senso i propri membri.
Rimane però ad incalzare la lapidaria affermazione degli Atti che difficilmente si presta ad essere addomesticata: “chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. Salta subito all’occhio che in questa semplice constatazione non  viene negata né la proprietà privata (“chi aveva proprietà”), né la libertà personale (“le vendeva” e non “era costretto a venderle”), né la condivisione di beni (“ne faceva parte a tutti”, non in maniera indistinta, in nome di un’uguaglianza  formale, ma “secondo il bisogno di ciascuno”, cioè secondo un’uguaglianza sostanziale); non solo non viene negata la libertà personale, ma viene sottolineato il valore della coscienza: non di una coscienza soggettiva, ma di una coscienza retta, innanzitutto dall’oggettiva testimonianza degli apostoli ai quali la condivisione di vita con Gesù  aveva restituito la piena consapevolezza della propria dignità di figli di Dio. Si tratta di una fondazione della comunione –agape che poggia, dunque, non su artificiali contrapposizioni di classe, ma sulla coscienza dell’uguale dignità degli uomini affermata fin  dagli albori della creazione: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò. (…) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”.

Gigliola

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